La magnetoterapia funziona?

Ultimo aggiornamento il 15 Marzo 2023
La magnetoterapia funziona, facciamo chiarezza

Le testimonianze più antiche sull’uso dei magneti come mezzi di cura sono presenti nel trattato di medicina dell’Atharvaveda. Nel Mondo occidentale, invece, si dovettero attendere gli inizi del 16° secolo perché il magnetismo diventasse oggetto di attenzione da parte di eminenti pensatori – che spesso, però, radicavano il proprio credo in correlazioni e spunti antiscientifici,…

La Magnetoterapia rappresenta una terapia fisica molto interessante ed ancora oggetto di ricerca: nata in seno alla medicina alternativa, i suoi effetti sono stati in certi casi confermati da applicazioni empiriche, in altri smentiti da studi caso-controllo. Ma, allora, la magnetoterapia funziona?

Nel rispondere a questa domanda non possiamo ignorare il fatto che l’applicazione dei campi elettromagnetici a scopo terapeutico (continui o pulsati – è quest’ultimo il caso della magnetoterapia eseguita durante sedute di fisioterapia e riabilitazione anche presso Centri di eccellenza distribuiti sul territorio nazionale) mostra effetti collaterali minimi, se non assenti. Questa caratteristica non trascurabile rende possibile l’applicazione dei PEMFs (dall’inglese Pulsed Electro-Magnetic Fields, Campi Elettro-Magnetici Pulsati) anche nell’ambito dell’automedicazione.

La magnetoterapia rappresenta per certi versi una frontiera nell’ambito della medicina bio-elettronica. Ancora oggetto di studio, viene spesso acquistata o, ancora più comodamente, noleggiata assieme agli altri dispositivi elettromedicali utilizzabili in completa autonomia all’interno di un contesto di riabilitazione a casa. Il contesto più ampio di un percorso riabilitativo dedicato ci aiuta a comprendere se la Magnetoterapia funziona.

Breve storia della magnetoterapia

I Macchinari per magnetoterapia si sono evoluti di pari passo con il progredire delle conoscenze riguardo questo trattamento. Dalle prime nozioni riportate nel trattato dell’Atharvaveda all’analisi delle forze magnetiche naturalmente presenti nell’ambiente che ci circonda, si dovette attendere il 16° secolo perché il Mondo occidentale fondasse il filone di studi – certamente pionieristici e fallaci, ma comunque estremamente interessanti – riguardo l’influenza dei campi elettromagnetici sul corpo.

Fu infatti Paracelso ad intuire le potenzialità terapeutiche dei magneti, ritenendo che parti del corpo oggetto di lesione, se esposte ad un campo magnetico, avrebbero generato una risposta in grado di velocizzare i processi di guarigione. Samuel Hanemann, il padre dell’omeopatia, era fermamente convinto del potere dei magneti e ne raccomandava l’uso terapeutico. Michael Faraday, che condusse ricerche fondamentali sull’elettricità, fu il primo a studiare i campi magnetici, inaugurando i fondamenti della bio-elettronica.

Sarà solo nel 20° secolo, tuttavia, che si assistette alla maturazione di un interesse scientifico nel senso moderno del termine: l’analisi della validità di impiego dei campi magnetici venne organizzata, finalmente, in prove di causa ed effetto e non di correlazione. Sono ormai 40 anni che l’impiego della tecnologia in grado di generare e controllare l’erogazione delle onde elettromagnetiche ha a sua volta dato il via ad un circolo virtuoso, promuovendo lo sviluppo di elettromedicali sempre più complessi.

La Magnetoterapia oggi

Esistono diverse terapie basate sull’applicazione dei campi magnetici e, a seconda degli impulsi considerati, si possono genericamente dividere in magnetoterapie con campi statici o pulsati. Non è un caso, quindi, che questa grande eterogeneità sia stata affrontata da una revisione sistematica del 2007, nella quale emerge l’impossibilità di parlare genericamente di benefici ed effetti terapeutici della magnetoterapia in quanto tale; è importante, infatti, considerare non l’insieme dei trattamenti proposti ma il singolo trattamento [1].

L’opzione più diffusa nei Centri di fisioterapia è l’elettromedicale in grado di erogare campi pulsati ed è quindi su questo tema che ci concentreremo per spiegare se la magnetoterapia funziona.

La magnetoterapia funziona per trattare le fratture?

Al netto di specifiche controindicazioni, ancora oggi, nonostante i molti anni di utilizzo, non si è raggiunto un consenso relativamente all’efficacia della magnetoterapia per il trattamento delle fratture delle ossa lunghe. Sono molte, infatti, le critiche avanzate alla scelta di questo strumento, non tanto per la sua efficacia quanto per la necessità di standardizzare delle chiare modalità di impiego. La Magnetoterapia, infatti, costituisce una metodica riabilitativa non invasiva, sicura e di semplice applicazione che è possibile eseguire direttamente sul sito di una lesione, sede di dolore e infiammazione [1].

La storia della magnetoterapia per la guarigione ossea inizia nel 1812, quando Birch analizza l’effetto dell’applicazione delle correnti elettriche per le fratture. Da questo momento in avanti ebbe origine il filone oggi fiorente delle elettro-magneto-terapie per il trattamento ortopedico e fisiatrico-riabilitativo. In 150 anni fecero in tempo ad originare gli studi moderni in grado di indagare gli effetti bioelettrici sull’osso: furono Fukada e Yasuda a presentare nel 1957 i loro esperimenti e ad ideare per primi l’impianto teorico che fornisce il razionale con cui le proprietà piezoelettriche dell’osso vengono influenzate dalla magnetoterapia [2].

Dagli studi di questi Autori ad oggi sono stati fatti passi avanti consistenti per legittimare l’uso dei campi magnetici durante un percorso di guarigione inteso al ripristino dell’integrità dello scheletro. Oggi la Letteratura scientifica riporta che, dopo un evento traumatico acuto o a seguito di una degenerazione cronica, l’applicazione di una corrente pulsata in grado di generare PEMFs determina una deformazione (chiamata più propriamente effetto piezoelettrico) in misura simile a quella dovuta ad una stimolazione meccanica. È in questo modo che i componenti cellulari dell’osso sembrano rispondere alla terapia, modificando il loro comportamento e accelerando la guarigione [2].

A contrapporsi almeno in parte a tutto questo, uno studio prospettico del 1988 firmato Colson e colleghi ha evidenziato come l’impiego dei campi magnetici pulsati per il trattamento delle alterazioni della guarigione delle fratture di una delle due ossa della gamba, la tibia (dal ritardo del consolidamento alla non-unione vera e propria), non abbia prodotto che risultati aneddotici e non probatori [3].

La magnetoterapia funziona
Diverse sono le applicazioni dei PEMFs, ma la magnetoterapia funziona?

Fratture, ritardi nella loro guarigione e non-unione: facciamo chiarezza

Una lesione ossea che coincide con un’interruzione della struttura dell’organo è chiamata frattura. Più nello specifico, la frattura è una condizione medica in cui si verifica un’interruzione parziale o completa nella continuità di qualsiasi segmento osseo del corpo. Un’alterazione di questo tipo può essere il risultato di uno stress dovuto all’azione di una forza considerevole sul distretto corporeo interessato (trauma diretto), oppure su un distretto lontano che però trasmette le tensioni meccaniche fino alla sede di rottura (trauma indiretto). Allo stesso modo, una frattura può determinarsi nel momento in cui sussistono condizioni mediche che indeboliscono la struttura ossea (osteoporosi, osteopenia, ecc.), per cui sono sufficienti minime sollecitazioni per causare un danno.

Nel caso delle ossa lunghe, ritardi nella guarigione e quindi nella corretta riunione dei monconi ossei, o non-unioni franche, avvengono nel 5-10% dei casi e saper riconoscere precocemente i quadri clinici può fare la differenza per modificare il percorso terapeutico e prevenire non solo disabilità fisiche, ma anche preoccupazioni continue per la/il paziente.

I ritardi di guarigione, infatti, si manifestano quando una frattura, nonostante mostri segni clinici e/o radiologici di guarigione, non riesce a sanarsi nei tempi previsti. Il risultato è una condizione causa di frustrazione, fastidio e dolore.

Una non-unione, invece, è identificata nel momento in cui i normali processi biologici di guarigione ossea si interrompono, risultando in due monconi ossei indipendenti.

A ben vedere, entrambi i quadri di ritardo di guarigione e di non-unione rappresentano definizioni pragmatiche e hanno come scopo quello di catalogare la realtà clinica in quadri quanto più netti possibile; non si tratta, tuttavia, di un processo del tipo tutto-o-nulla, dove il ritardo di guarigione è ben distinto dalla non-union. Per entrambe le manifestazioni, poi, è sempre l’aspetto radiologico a consentire di inquadrare un quadro ipertrofico oppure un aspetto ipo- o atrofico, come segue:

  • Un difetto di unione dei capi ossei di tipo ipertrofico sviluppa un abbondante callo osseo, ma senza procedere verso l’unione dei due segmenti fratturati;
  • Un difetto di tipo ipo- o atrofico si manifesta per l’assenza di callo osseo e, addirittura, per il riassorbimento di tessuto osseo limitrofo alla sede di lesione.

È difficile prevedere se una frattura si evolverà in un processo ipertrofico o ipo-/a-trofico, ma generalmente si possono analizzare l’interazione di diversi agenti causali in grado di perturbare una guarigione fisiologica. Sono certamente importanti:

  • Caratteristiche proprie della frattura, come la dislocazione dei capi ossei, la gravità del trauma che ha investito le ossa ed i tessuti molli circostanti, eventuali infezioni locali, la possibilità di ricorrere ad una gestione precoce della lesione;
  • Fattori iatrogeni, che includono – tra gli altri – farmaci di uso comune come anticoagulanti, composti ad attività antinfiammatoria, ma anche radioterapia;
  • Fattori propri del paziente, come età, stato vitaminico e minerale (molto importante è certamente l’apporto di calcio, fosforo e vitamina D, ma anche di altri microelementi e macroelementi che devono essere assunti in quantità ottimale per una celere guarigione), abitudine al fumo.

Non solo: la riparazione ossea dipende in modo consistente da un elevato numero di reazioni biologiche che coinvolgono specifici gruppi cellulari, regolati finemente anche da stress meccanici. Questi stress vengono sfruttati durante l’applicazione di un apparecchio gessato e permettono, tramite movimenti infinitesimali, di sollecitare il processo detto di riparazione secondaria o endocondrale. Permettere che l’osso venga sottoposto a deformazione meccanica in un range di valori compreso tra il 2 ed il 10% avvia la guarigione ossea secondaria che deriva da un susseguirsi di infiammazione, riparazione e di rimodellamento del sito della lesione.

Mentre molti specialisti restano scettici riguardo il valore della stimolazione elettro-magnetica nella guarigione ossea nella pratica riabilitativa [2], studi sperimentali su animali di laboratorio ne hanno più volte riportato l’efficacia [4]; in colture cellulari, poi, la stimolazione elettromagnetica determina la liberazione di molecole fondamentali per il processo di guarigione e per la creazione di nuovi tessuti [2].

Anche in ragione dei riconosciuti difetti metodologici di alcuni studi che ne approvano l’impiego, ad oggi la magnetoterapia resta, per la comunità medica, un approccio adiuvante e non una terapia di primo piano per diversi ordini di problemi [5]:

  • Il personale medico è spesso poco preparato sull’impiego di questa metodica;
  • Gli Organi regolatori del suo utilizzo, forti del principio di precauzione, sono piuttosto cauti nell’approvare un impiego a tappeto;
  • Il sensazionalismo dei mass media spesso è così spinto verso il ricercare a tutti i costi la notizia della terapia miracolosa da perdere di vista il razionale di impiego ed il rapporto costo-beneficio proprio di ciascun elettromedicale.

È bene sottolineare che una delle principali cause di fallimento nei trattamenti conservati delle fratture non è l’eventuale mancata applicazione della magnetoterapia – che resta uno strumento, tra tanti, a disposizione del percorso terapeutico [6] – bensì complicazioni come:

– infezioni attive nelle sedi lesionate [2]
– mancato accostamento delle rime ossee, scorretto posizionamento delle ossa una volta immobilizzate ed eccessivi movimenti dei monconi ossei accostati [6].

Ecco perché a volte è complicato riconoscere se la magnetoterapia funziona!

Studi e loro interpretazioni per aiutarci a capire se la magnetoterapia funziona

Uno studio del 1984, rifacendosi a ricerche precedenti di Bassett, si è focalizzato sul mettere un punto alla disquisizione che già da qualche anno stava infiammando gli animi della comunità scientifica.

In una conversazione tra il Dottor B.T. O’Connor ed il Dottor W.J.W. Sharrard pubblicata sul numero del 21 luglio del The Lancet, emerge con forza il dualismo che divide gli Specialisti e le critiche avanzate agli studi effettuati fino a quel momento. I maggiori difetti metodologici emergenti indicavano come fosse necessario effettuare maggiori approfondimenti per decretare l’utilità di impiego della terapia tramite campi magnetici a bassa frequenza e bassa intensità [7]. Dato che il ritardo di guarigione, se non proprio i casi di non-unione ossea, rappresentano esempi di complicazioni delle fratture e causa di elevata morbilità e perdita di indipendenza nella vita di tutti i giorni, sarebbe stato (all’epoca così come attualmente) utile poter attingere ad uno strumento meglio standardizzato nei modi e tempi di applicazione, per aiutare pazienti selezionati, velocizzando i processi di guarigione spontanea [8].

Per quanto riguarda l’applicazione in caso di fratture delle ossa lunghe nell’adulto è una revisione sistematica di studi di intervento pubblicata da Cochrane a ribadire le difficoltà nel confermare implicazioni concrete nella pratica clinica dei PEMFs. La stessa revisione ne ha confermato la sicurezza ed i possibili benefici, auspicandone non solo una indicazione di qualità, ma anche il cammino in un percorso, ormai avviato, sulla standardizzazione delle modalità di applicazione, ancora oggi troppe volte affidate alla sensibilità del Fisioterapista e del Medico prescrittore [8].

Bibliografia

[1] Markov MS. Magnetic field therapy: a review. Electromagn Biol Med. 2007;26(1):1-23. doi: 10.1080/15368370600925342. PMID: 17454079.

[2] Lynch AF, MacAuley P. Treatment of bone non-union by electromagnetic therapy. Ir J Med Sci. 1985 Apr;154(4):153-5. doi: 10.1007/BF02937258. PMID: 4008218.

[3] Colson DJ, Browett JP, Fiddian NJ, Watson B. Treatment of delayed- and non-union of fractures using pulsed electromagnetic fields. J Biomed Eng. 1988 Jul;10(4):301-4. doi: 10.1016/0141-5425(88)90058-1. PMID: 3266275.

[4] Connolly JF. Electrical treatment of nonunions. Its use and abuse in 100 consecutive fractures. Orthop Clin North Am. 1984 Jan;15(1):89-106. PMID: 6607443.

[5] Markov M. XXIst century magnetotherapy. Electromagn Biol Med. 2015 Sep;34(3):190-6. doi: 10.3109/15368378.2015.1077338. PMID: 26444192.

[6] O’Connor BT. Pulsed magnetic field therapy for tibial non-union. Lancet. 1984 Jul 21;2(8395):171-2. doi: 10.1016/s0140-6736(84)91092-4. PMID: 6146073.

[7] Bassett CAL, Mitchell SN, Gaston SR. Treatment of ununited tibial diaphyseal fractures with pulsing electromagnetic fields. J Bone Jt Surg 1981;63A:511-23.

[8] Griffin XL, Costa ML, Parsons N, Smith N. Electromagnetic field stimulation for treating delayed union or non-union of long bone fractures in adults. Cochrane Database Syst Rev. 2011 Apr 13;(4):CD008471. doi: 10.1002/14651858.CD008471.pub2. PMID: 21491410.

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