Il latte... si o no?

Ultimo aggiornamento il 12 Ottobre 2023

LATTE E ALIMENTAZIONE

Il latte è divenuto un alimento per il consumo da parte dell’uomo al momento del passaggio da una società di cacciatori-raccoglitori ad un’esistenza più stanziale basata su l’allevamento e l’agricoltura; la domesticazione degli animali iniziò in quella che oggi è la Turchia, estendendosi poi nella vicina Europa continentale e nelle isole britanniche e, parimenti, nel Medio Oriente.

È molto probabile che il latte venisse inizialmente consumato solamente nella forma dei suoi derivati yogurt o kefir e formaggi per tre motivi: facilitare la conservazione di un prodotto altamente deperibile, rendere più agevole il suo trasporto in forme di volume considerevolmente ridotto, e non in ultimo, abbattere il suo contenuto di lattosio rendendolo più fruibile da tutti, e vedremo perché.

Proprio la presenza dello zucchero lattosio, che costituisce la quasi totalità della parte di carboidrati del latte e dei derivati dal suo siero, scatena ad oggi un dibattito quasi esistenzialistico tra due agguerrite fazioni: da una parte c’è chi, brandendo la clava dell’onnivorismo, non vede alcun problema nel consumare l’alimento tout court o come trasformato dall’industria casearia, dall’altra troviamo chi si schiera fermamente contro la sua assunzione, adducendo spesso affermazioni simili alla seguente: Nessun animale adulto beve latte, figurarsi quello di altre specie, e neanche l’uomo dovrebbe farlo. E ancora: Nel mondo tre quarti degli adulti sono intolleranti al lattosio, quindi nessuno dovrebbe consumare latte, indipendentemente dalla propria capacità di digerirlo.

Consideriamo per l’appunto il lattosio. Per poter ridurre questo disaccaride e ricavarne energia, l’intestino umano deve essere in grado di produrre l’enzima lattasi; tutti i mammiferi neonati ne sono capaci, ma con lo svezzamento e la diminuzione del consumo di latte, l’uomo cessa quasi del tutto di sintetizzarlo all’età di dieci anni, condizione che prende il nome di ipolattasia. Questa evenienza si verifica in circa il 75% della popolazione in tutto il mondo, e l’assunzione di latte o suoi derivati con ancora una buona quota di lattosio, porta a concreti malesseri inquadrati in una vera e propria intolleranza.

Fortunatamente, un consumo giornaliero di lattosio in coloro che smettono di produrre la lattasi, può selezionare una flora batterica intestinale capace di alleviarne i sintomi e di permetterne un’assunzione continuativa nel tempo (da non confondere l’intolleranza con l’allergia: il latte è un alimento anche fortemente allergenico e molto spesso associato a risposte atopiche importanti; si discute se sia l’alterazione del microbioma intestinale ad essere responsabile delle allergie alimentari tra cui spicca la risposta anomala alle proteine del latte vaccino, o il consumo di latte a selezionare una popolazione batterica che alteri l’asse ormono-immunitario. A ciò si aggiunge il sospetto ormai abbastanza fondato che le proteine del latte alterino l’equilibrio dei fattori di crescita aumentando il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari, tumori del sistema riproduttivo femminile, infertilità maschile e malattie neurodegenerative).

In base alle conoscenze a nostra disposizione, possiamo guardare con occhio evoluzionistico alla faccenda: si ritiene che in modo del tutto casuale e spontaneo si sia verificata circa 10.000 anni fa, in quelle popolazioni dedite alla pastorizia, la mutazione genetica che rende persistente la presenza della lattasi nell’intestino dell’adulto; tale carattere è stato selezionato e diffuso in quei popoli in un tempo relativamente breve, donando un vantaggio consistente a chi la possedesse rispetto a chi ne fosse privo: chi poteva bere latte aveva maggiori probabilità di sopravvivere e trasmettere alle generazioni successive quel tratto.

Da una parte infatti la possibilità di accedere ad un alimento calorico e ricco di micronutrienti, non per ultimi il calcio e la vitamina D, in un’era in cui le penurie e le epidemie erano la norma, sicuramente avrà fornito un alleato in più per la sopravvivenza delle famiglie in grado di usufruirne.

Va da sé che in Europa la persistenza della lattasi è la situazione più comune, complice anche l’importante tradizione pastorale, con prevalenza addirittura maggiore del 95% nella penisola scandinava e nelle isole anglosassoni (la percentuale diminuisce mano a mano che procediamo verso il Mar Mediterraneo, raggiungendo minimi valori in Sardegna, dove la variabilità dell’alimentazione basata su prodotti di origine vegetale ed ittici la fa storicamente da padrone; i cereali integrali e la frutta a guscio ampiamente consumati alle nostre latitudini sono delle importanti fonti di calcio, mentre la vitamina D metabolicamente attiva, che può aumentarne l’assimilazione anche del 30%, per lo più è ottenuta da una buona esposizione solare).

A questo punto, che dire di quel quarto di popolazione che può godersi senza problemi una coppa di fragole con la panna (in modo naturale)?

Facciamo poi chiarezza riguardo ad un altro punto fondamentale: in determinati prodotti caseari, il lattosio presenta concentrazioni addirittura inferiori allo 0,01% in virtù del loro processo produttivo comprensivo di fermentazione e stagionatura; ne deriva che i formaggi a pasta dura ed extra-dura ed erborinati sono generalmente tollerati dagli ipolattasici. Inoltre oggi esistono in commercio delle versioni di formaggi freschi a pasta molle, i quali classicamente contengono un buon residuo di lattosio, ottenuti mediante un procedimento grazie al quale viene aggiunto l’enzima lattasi, rendendoli pronti per il consumo di tutti.

Due parole dal punto di vista della nutrizione umana. Il latte è considerato una buona fonte di proteine complete, ovvero recanti tutti gli amminoacidi essenziali e certamente una fonte di calcio di facile assimilazione, anche se un numero sempre maggiore di evidenze avvalora l’ipotesi che si tratti di un alimento bilanciato e completo solo nelle prime fasi di vita del mammifero, e non per un consumo da parte dell’adulto.

Di qui, una curiosità: la composizione del latte materno cambia a seconda delle esigenze nutrizionali del piccolo mammifero e dello stato nutrizionale della mamma, modificando il proprio contenuto in zucchero (il latte umano è dolcissimo, si pensi che oltre l’80% della sua composizione a 3 mesi dalla nascita è dovuto a glucidi, di cui oltre l’80% è costituito da lattosio!) e proteine e grassi durante l’intero periodo di allattamento al seno. Ad oggi nei paesi occidentali tra i più consumati vi è certamente il latte vaccino, che se da una parte contiene micronutrienti preziosi, è anche fonte di acidi organici e proteine; questi, se in eccesso, favoriscono la demineralizzazione delle ossa anziché un’azione protettiva verso l’osteoporosi, al contrario di quanto sembrerebbe suggerire la sua composizione abbondante in calcio e vitamina D; si suggerisce oggi di non abusare di questo alimento o dei suoi derivati, privilegiando, se si opta verso un loro consumo, prodotti caseari freschi e magari con un tenore di grassi ridotto (per limitare l’assunzione di grassi saturi e colesterolo, nemici della nostra salute).

In quest’ottica, sappiamo oramai latte e suoi derivati per la prevenzione dell’osteoporosi non servono poi a molto, nonostante claim pubblicitari di valore più o meno scientifico; o meglio, non servono a molto se non si cura l’alimentazione nel suo complesso.

Privilegiare il consumo di alimenti vegetali, come verdure a foglia verde, cavoli e broccoli e crucifere in generale, cereali integrali e legumi, a cui associare un’attività fisica moderata che ponga nella giusta sollecitazione le ossa, ed una esposizione solare corretta, è molto più vantaggioso a medio e lungo termine.

Mila Bonomi

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